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Ciò che ci lega agli altri è prima di tutto la vulnerabilità. Secondo Achille Mbembe, uno degli studiosi più brillanti nell’interpretazione non eurocentrica dei cambiamenti sociali, accettare la vulnerabilità come tratto comune è il primo passo per creare relazioni non rinchiuse nella dicotomia padrone/schiavo né nella dialettica onnipotenza/impotenza, vittoria/sconfitta, integrazione/ghettizzazione. Il filo rosso della campagna “NOI. Viaggio tra gli stereotipi delle migrazioni” promossa dal GUS insieme al fotoreporter Andrea Gabellone è cominciata in giugno su alcuni cartelli pubblicitari nelle vie di Lecce: l’idea che qualcuno, camminando per strada, possa riconoscere quella vulnerabilità attraverso diversi commenti scritti e fotografie di donne e uomini migranti è probabilmente la chiave principale per cominciare a mettere in discussione gli stereotipi che accompagnano l’universo delle migrazioni. Per approfondire questi temi e conoscere meglio la campagna “NOI”, abbiamo rivolto qualche domanda ad Andrea Gabellone.
Dopo aver trovato spazio nelle strade di Lecce e Andrano la mostra fotografica "NOI. Viaggio tra gli stereotipi sulle migrazioni" è rimbalzata sul web e ora è accolta nel comune di Guagnano. Quali sono gli obiettivi della mostra?
Come per tutte le mostre, l’obiettivo principale è lasciarsi vedere il più possibile. “NOI” nasce con l’intento di sfondare metaforicamente il limite fisico del monitor, ed è per questo motivo che nella sua idea originaria prende la forma di esposizione urbana. Le plance pubblicitarie ci hanno regalato una possibilità ulteriore di confronto, al di fuori del web e dei luoghi dove regna omogeneità di pensiero. L’idea che qualcuno, camminando per strada, si riconosca in quei commenti rimane per me l’aspetto più interessante. D’altra parte, questo è il senso stesso della sensibilizzazione: cercare l’interazione con qualcuno che la pensa diversamente per offrire o ricevere un impulso che, chissà, potrebbe dar vita a un pensiero più ampio, diverso, nuovo. È un obiettivo molto ambizioso, lo riconosco, ma il dibattito rimane un tema centrale senza il quale tutto questo si ridurrebbe a mero esercizio di stile.
Ad ogni modo, parallelamente a questa modalità di esposizione che cercheremo di proporre sicuramente anche in altri comuni, continueremo a portare “NOI” nella sua versione da mostra fotografica “ordinaria” nei luoghi della cultura, tra le associazioni e gli istituti scolastici che la stanno già richiedendo. Parlare di stereotipi, fake news e linguaggio d’odio è di per sé importantissimo; farlo con gli studenti e le studentesse delle nostre scuole diventa assolutamente necessario.
Com'è stata accolta finora? Cosa ti ha sorpreso in queste settimane?
L’affissione dei manifesti a Lecce, nel giugno scorso, ha rappresentato il raggiungimento dell’obiettivo iniziale. “NOI” è nata per celebrare la “Giornata Mondiale del Rifugiato” e vederla sulle plance della città ci ha restituito la soddisfazione per un lavoro che, a tratti, non è stato banale. Poi, grazie ai tanti colleghi giornalisti che ne hanno scritto, il progetto ha avuto una buona visibilità anche fuori dai confini del nostro comune e della nostra provincia. Proprio pochi giorni fa mi sono giunte due proposte per portare la mostra a Roma e a Bologna. Staremo a vedere. Tuttavia il cammino per questo nostro lavoro è appena cominciato e sono abbastanza curioso di vedere quali reazioni potrà suscitare. Non c’è il timore di indispettire qualcuno. Dietro un dichiarato contrasto potrebbe celarsi una riflessione personale della quale, probabilmente, non sapremo mai nulla, ma che, anche fosse solo una, da sola, avrà ampiamente ripagato la fatica per la realizzazione del progetto.
Ha scritto Susan Sontag: “La fotografia sconvolge nella misura in cui mostra qualcosa di nuovo”. Come ripensare la fotografia oggi, di fronte allo straripare delle immagini, per favorire la capacità di far emergere mondi nuovi?
Nonostante il consumo spesso bulimico di immagini che si susseguono sui nostri monitor e l’avvento dell’intelligenza artificiale, che rappresenta già un nodo da dirimere, la fotografia rimane un efficacissimo veicolo di pensiero. Eppure il problema, parlando di comunicazione o di giornalismo, non è più nemmeno legato all’immagine in sé: il tema non è cosa mostrare, ma come farlo.
Abbiamo già visto tutto. Il pericolo è che nulla possa più sorprenderci, lasciarci senza parole o costringerci a una riflessione. E allora si fa necessario un progetto. Con la tecnologia che ognuno di noi ha a disposizione, produrre delle foto esteticamente accettabili è ormai alla portata di chiunque. Proprio per questo, diventa indispensabile avere un’idea.
Nel 2015, durante uno dei flussi migratori più intensi sulla rotta balcanica, il fotoreporter dell’agenzia Getty Images Cristopher Furlong scattò centinaia di foto agli oggetti lasciati sul cammino da coloro che cercavano di attraversare il confine tra Serbia e Ungheria. Mentre i colleghi del fotografo si concentravano sui migranti, lui si servì di vestiti, occhiali, farmaci e peluche abbandonati per raccontare quel passaggio drammatico. La chiave era assolutamente inedita e la carica emotiva attorno a quelle immagini consentì al lavoro di Furlong di fare il giro del mondo. Questo fa un’idea. Il punto non è fare foto belle, ma, come dice Gianni Berengo Gardin, fare “foto buone”. La foto buona se ne infischia della luce ideale, del mosso, della messa a fuoco imperfetta; la foto buona è quella che riesce a comunicare.
La mostra e la relativa campagna nascono all'interno dell'impegno quotidiano del GUS sui temi dell'accoglienza diffusa. Quali possono essere, dal tuo punto di vista, alcuni elementi essenziali per proporre nei territori una cultura dell'accoglienza-reciprocità?
Non sono un addetto ai lavori, ma sono convinto che il lavoro del Gus vada nella migliore delle direzioni possibili. L’accoglienza deve essere portata avanti con criterio, con professionalità, con competenza, con umanità, sempre nel rispetto di chi arriva, ma anche di chi apre le braccia. Le comunità che il Gus è stato capace di creare nel tessuto sociale salentino rappresentano l’esempio virtuoso di una pratica che, talvolta, non riesce a compiersi pienamente. Le qualità di chi lavora in questo ambito sono decisive e non è sempre facile trovare persone preparate e umanamente all’altezza di un compito così delicato. Per quanto mi riguarda, poter collaborare con le lavoratrici e i lavoratori del Gus è un autentico privilegio. Ai miei figli dico che chi dedica la propria vita - spesso anche in orari extralavorativi - ai bisogni dei più fragili è un vero supereroe. È necessario far conoscere questo enorme lavoro e i bellissimi risultati che ha generato: è senz’altro la migliore pubblicità che si possa fare all’accoglienza.
In un tempo segnato da guerre e migrazioni, il diritto di asilo, pur essendo previsto dalla Costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, non sembra godere di buona salute. Cosa può fare in questo scenario il mondo dei media?
In questo momento storico, il giornalismo, pur nella crisi di risorse e credibilità in cui è sprofondato, non deve solo riuscire a sopravvivere, ma anche ritrovare se stesso. Delegare il proprio compito ai social network e alla politica ha portato, come abbiamo visto, a risultati catastrofici. Tuttavia sono dell’idea che insieme a una nuova linfa giornalistica, vada formata anche una nuova classe di lettori. Non c’è reportage o inchiesta utile senza qualcuno che sia pronto a leggere, apprezzare e riflettere. Se non ci sarà questa consapevolezza, continueremo a combattere con le armi spuntate. Il mondo attuale, sempre più fondato su consumismo di risorse, precarietà del lavoro e relazioni “usa e getta”, è diventato terreno arido per certi diritti. L’attenzione verso temi come quello delle migrazioni è, ora come ora, direttamente proporzionale alla discriminazione e all’intolleranza che ne scaturiscono. Per questo bisogna ricominciare dalle scuole: smontare stereotipi, disinnescare l’odio, riconoscere il valore dell’informazione, apprezzare la ricchezza della diversità, sono tutti obiettivi per gli studenti che verranno. Il nostro futuro è inevitabilmente legato alla qualità della scuola e dei risultati che saprà produrre, ben al di là del tanto osannato merito. Abbiamo uno straordinario bisogno di cultura.